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La poesia dei Bluesmen. Dalle origini alla scena di oggi.

Data di pubblicazione 16/10/2013


Se dico blues, cosa vi viene in mente?
La discriminazione razziale americana. Robert Johnson. L’emozione dei tre accordi.
I Blues Brothers. La notte. Gli Stones. New Orleans. Il delta del Mississippi.
Chicago. Il dolore. Eric Clapton. I locali sporchi e malfamati. Jimi Hendrix.
Blue note. La chitarra quadrata di Bo Diddley. Improvvisazione. BB King.
Chuck Berry. Stevie Ray Vaughan. Poesia.

Bravi, ottima brainstorming. Tutto, tutto questo e tanto altro ancora sta nell’universo evocato dalla parola blues. Nella sua evoluzione dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino ad oggi, il blues è stato molto più di un genere musicale (padre, nonno e bisnonno delle ramificazioni della musica leggera dagli anni Cinquanta in poi), è stato un vero e proprio mondo a sé stante. Dagli studi di Vincenzo Martorella apprendiamo che per i primi musicisti di cui si ha notizia “avere il blues” significava per lo più sentire il desiderio di un amore appagante e duraturo con la propria compagna. Questo succedeva ovviamente nei momenti di instabilità e di litigio della coppia o in seguito a delusioni amorose (niente di nuovo, insomma). Il blues era quindi una specie di stato d’animo che nasceva certamente da forme di frustrazione e scazzo, che venivano a loro volta da situazioni amorose. Già dopo qualche anno si cominciò a inserire nelle canzoni anche denunce di tipo politico contro la denigrazione da parte dei bianchi.
Secondo me oggi il blues è come la bibbia del sesso di American Pie, un piccolo libro di poche pagine farcito nel tempo da tonnellate di contributi, note a margine, fogli aggiuntivi, appendici, prefazioni, postfazioni e, perché no, collegamenti ipertestuali. Di conseguenza difficile da definire.
A mio parere, una delle derive più affascinanti dell’immaginario blues è stata la poesia.

In principio era Langston Hughes.. Poi Brown..

Negli anni venti della blues explosion, precisamente nel 1927, lo scrittore e giornalista di colore sente di poter dare il suo contributo alla definizione di una cultura e di un’identità afroamericane pubblicando il libro Fine clothes to a Jew, tentando quindi un esperimento parecchio ambizioso: ampliare il campo del blues dalla musica alla poesia. Perché ambizioso? Anzitutto perché una delle caratteristiche fino a quel momento intrinseche del blues era la trasmissione orale; poi perché i brani blues erano spesso frutto di improvvisazioni in cui testo e musica venivano partoriti insieme. Pensare a dei componimenti blues senza accompagnamento musicale sembrava assurdo, ma l’esperimento ebbe effettivamente la sua parte di successo e ce ne furono altri, come Dear lovely death o Shakespeare in Harlem. La forza di Hughes fu sicuramente la grande capacità versificatoria unita all’attenzione per le caratteristiche del linguaggio usato nel blues: sgrammaticature, suoni duri, espressioni dialettali, universo tematico ben definito. Hughes fu molto abile anche nel distribuire le sillabe in modo da ricreare il profilo melodico delle canzoni e nel  non alterarne la struttura metrica AAB (due parti uguali e una terza differente che funge anche da chiusa) con ciascuna frase divisa in due versi nella tipica forma del call and response (la prima parte apre col primo pezzo della frase, la seconda ne completa il senso e l’andamento melodico):

I’m gonna walk to the graveyard                                       Andrò al cimitero

‘Hind my friends, Miss Cora Lee                                       seguendo la mia amica, Miss Cora Lee
Gonna walk to the graveyard                                            Andrò al cimitero
‘Hind my dear friend Cora Lee                                         seguendo la mia amica, Miss Cora Lee

Cause when I’m dead some                                               Così quando muoio
Body’ll have to walk behind me                                         qualcuno mi seguirà

Con lo stesso intento di Hughes, Sterling Brown, poeta, critico e storico, si approcciò alla poesia blues nei primi anni trenta: è del ’33 Southern Road (il bello di questi titoli è che sono sempre fighissimi da pronunciare), raccolta di poesie che trattavano di gente povera, ambientazioni rurali, tematiche popolari. Il tentativo era quello di esaltare la popolazione afroamericana e di riconoscere il blues e le forme ad esso collegate come espressione della creatività artisctica di quella gente. Come Hughes farà in seguito, Brown comincia ad abbandonare lo schema AAB a favore di una maggior libertà e dinamicità. Nella poesia che segue viene esaltata la figura della cantante blues Ma Rainey, all’epoca un simbolo per gli afroamericani:

O Ma Rainey                                             O Ma Rainey
Sing yo’ song                                             Canta la tua canzone
Now you’s back                                        Ora che sei tornata
What you belong                                        Nel posto a cui appartieni
Git way inside us,                                     Fatti strada dentro di noi
Keep us strong…                                       Mantienici forti
O Ma Rainey,                                             O Ma Rainey
Li’l an’ low;                                                Piccola e minuta
Sing us ’bout de hard luck                          Cantaci della malasorte
Roun’ our do’;                                           Che ci sta attorno
Sing us ’bout de lonesome road                  Cantaci della strada solitaria
We mus’ go…                                          Che dobbiamo percorrere

Oltre la musica. Ginsberg’s blues e… Benni

Prendiamo la DeLorean e saltiamo agli anni 70, dove incontriamo Allen Ginsberg. Allen Ginsberg? Sì, sì, Ginsberg, il visionario, il beat, l’amico di Kerouac e Dylan. E infatti è proprio Bob Dylan a essere determinante per la stesura dei suoi Primi blues, scritti tra il ’71 e il ’75, raccolti e pubblicati in seguito da terze persone. E’ interessante capire come sono nate queste composizioni. Ce lo spiega Ginsberg stesso, in uno scritto del 30 giugno ’75: “cominciai a salmodiare solo nel 1963 quando visitai l’India e il Giappone dove, profondamente colpito dal Sutra Prajnaparamita e dai Mantra Hare Krishna (non è stato facile scriverli), mi feci prestare da Peter Orlovsky il piccolo armonium Benares e cominciai a cantare quelle formule magiche in un immutabile accordo di do”. Un Ginsberg folgorato dal suo viaggio in oriente decide quindi di muovere i primi passi con un armonium e una musica molto formulaica, usando un solo accordo. Intanto arrivano suggestioni anche da Blake e il poeta comincia a improvvisare e incidere alcuni suoi canti con un registratore regalatogli tempo prima da Dylan. Man mano a quell’unico accordo di do si aggiunge quello di fa e le sperimentazioni continuano assieme alle sue letture poetiche in giro per l’America. Ma Ginsberg è stanco, non è più soddisfatto di questo. Una sera Chogyam Trungpa, maestro buddista di meditazione, ascolta il suo sfogo e gli risponde “Hey amico, è chiaro, è perché non ami la tua poesia. Sì, bello, è così. Cambia strada, non dipendere più da un pezzo di carta, fai come i grandi poeti, improvvisa spontaneamente sul posto!”. Bam! …E così Ginsberg mette in piedi spettacoli di improvvisazione poetica con accompagnamento di armonium e coro. Nell’autunno del ’71 lui e Orlovsky si esibiscono alla New York University nel Greenwich Village. Tra il pubblico è presente indovinate chi?…Dylan, che quella notte telefona meravigliato a Ginsberg, lo raggiunge in albergo e si mette a suonare mentre il poeta tira fuori versi estemporanei. Da qui nascono i “primi blues” del libro, incisi con Bob in due sedute. Prove ridotte al minimo, per trasferire la spontaneità nelle incisioni.

Non chiamerei questi blues “canzoni”; direi piuttosto che sono poesie intonate su accompagnamento musicale. I temi affrontati stanno a metà tra il blues e il beat: il viaggio, la politica, gli affetti, la guerra, il sesso. La cosa figa di queste poesie è la loro musicalità: funzionano anche senza musica, anzi forse funzionano meglio senza musica. Le sillabe danno già da sole l’idea delle melodie dei blues classici. Prendiamo Broken Bone Blues (“Il blues delle ossa rotte”). Su youtube c’è la registrazione:

Broken Bone Blues 

Queste invece sono tre strofe del testo, che bisogna assolutamente provare a leggere:

Broken bone bone bone                   Ossa rotte rotte rotte
all over the ground                  sparse dappertutto
Broken bone bone bone               Ossa rotte rotte rotte
Everywhere the sound              Dappertutto è il suono
of broken bone bone bone           di ossa rotte rotte rotte
everyone brought down                 Ognuno è ridotto
everyone brought down               ognuno è ridotto
to broken bone bone bone               a ossa rotte rotte rotte
Broken head & bony crown          rotta la testa e la corona ossuta
Broken bone bone bone             Ossa rotte rotte rotte
Broken guru-king & clown           rotto il guru-re e il clown
Broken bone bone bone                  Ossa rotte rotte rotte
To the boneyard I am bound           All’ossario son destinato
To the boneyard I am bound           All’ossario son destinato

Poesia improvvisata, intonata, fissata su carta, improntata su un genere musicale al quale finisce per ritornare attraverso registrazioni. Sembra rispecchiare la natura errabonda degli autori beat.

Ma adesso è tempo di tornare verso casa. Riattivate la DeLorean e impostate le coordinate: Italia, Bologna, 1998.

Ballata della città dolente

Sto per parlare di uno dei miei libri preferiti di sempre, scritto da uno degli autori preferiti di sempre. Dovessi dire tutto quello che ho da dire farei tre articoli e mezzo. Ispirato ad un fatto di cronaca degli anni 80, Blues in sedici di Stefano Benni racconta di un padre povero e disoccupato che, nel cuore della notte, esce di casa e, come guidato da un presentimento, finisce nella sala giochi in cui il figlio adolescente sta passando la serata e in cui sta per avvenire un regolamento di conti tra un assassino e uno spacciatore. Il killer spara all’impazzata, il padre istintivamente fa da scudo col suo corpo al figlio e viene ucciso. Ma perché “in sedici”? Sedici cosa? La storia viene raccontata attraverso sedici poesie, due per ognuno degli otto personaggi: l’indovino cieco, il padre, la madre, il figlio, Lisa, la città, Teschio e il killer. Queste poesie però si possono anche vedere come sedici motivi musicali, tasselli di un puzzle, scene di una piéce teatrale, tracce di un’opera concept.

E perché “blues”?? Cosa c’entra la musica?

Ci sono dei motivi. Primo, anche se ormai alle porte del Terzo Millennio non ci sono più vincoli con la metrica e le formule originarie, queste poesie (che mi trattengo a fatica dal dirvi quanto sono suggestive) furono recitate da Benni con un gruppo che lo accompagnava con semi-improvvisazioni in stile “blueseggiante”. Secondo, alla fine degli anni novanta dire “blues” evoca già tante cose al di fuori della sua sfera: la periferia di una città notturna, decadente, piena di luci, impulsi, neon, sfaceli, voci, misteri, disordini, nevrosi, motori, sporcizie (nell’immaginario collettivo il blues si suona nei peggiori localacci suburbani); richiami al grunge, al punk (Lisa ha tratti da eroina ribelle), agli scenari urbani di tanti film anni 70, alla letteratura cyberpunk, distopica e apocalittica; il dolore (il dolore del padre disoccupato che poi finisce ucciso; il dolore del figlio nel vederlo afflitto dalla sua condizione; il dolore della madre che segue la vicenda dall’aldilà – non a caso il sottotitolo del libro è Ballata della città dolente).

In mezzo a tutto questo Benni tira fuori la sua proverbiale graffiante ironia e contemporaneamente scrive versi di un lirismo incredibile. Ora tira pennellate violente e ora passa il colore così piano che nemmeno te ne accorgi. La ragazza sogna il mare ad occhi chiusi e pochi versi più in là ammira il suo stesso culo. Anche questo è blues, baby.

Questi personaggi continuano a farmi sognare, continuo a leggerli e rileggerli e ogni volta hanno ancora tante cose da dire. Ancora non ho finito di assorbire la bellezza delle descrizioni degli scenari o delle metafore o degli stili poetici che si mescolano. Mi ricordo di quella mattina che incontrai Benni a Porta Santo Stefano, un anno fa. Dopo la foto obbligatoria, gli parlai eccitato della mia passione per Blues in sedici e con sorpresa mi rispose che anche lui, tra tutti i suoi libri, preferiva quello.

IL PADRE

“Così io sto, crocefisso a un normale pomeriggio
sull’abisso di un tavolo da cucina
tra i piatti da lavare, anche questa è rugiada
pensando che così non potrà continuare
al vento del dolore, ritto in piedi.
[…]
Cantami il getto caldo di acido
e il piombo nei polmoni
[…]
Cantami i giorni senza inizio né scopo
dimmi quale nome dovrei invocare.
Toccò mai a Dio entrare in un supermarket
con cinquemila lire in tasca, a occhi bassi
cercando il latte che costava meno
per il Figlio, l’unico figlio affamato?
[…]
Sa Dio cosa vuol dire contare
le monete in tasca, quasi tornando bambini?
Dio non permette questo, lo vuole
nella sua infinita stanchezza.
[…]
Io che conosco l’ultimo trillo
della cassa, quando la sera inghiotte i destini
[…]
Tra i muri del market corre un bue
in un incubo, sogna che lo macellano
e la sua paura mi sveglia.”

Stefano Benni feat. Torpedo – Il Padre

Oltre il Blues. Blues Alieno

Che ne è oggi della poesia blues? Sulla Terra tutto tace, ma pare che da qualche parte siano state rinvenute registrazioni di canzoni e reading di poesie blues provenienti da mondi …”lontani”… Questo ha portato alla luce una nuova, stupefacente scoperta: gli alieni fanno blues. Mi sto direttamente ispirando al brano che Gerolamo Sacco ha pubblicato un mese fa con la label che mi sta ospitando. Ne voglio parlare perchè c’è un aspetto che pochi considerano che vorrei mettere in luce. Il Blues era una rottura. Il Blues non era conservazione. Se il Blues fosse stato conservazione, sarebbe solo stata musica da camera e il nome sarebbe volato via come il fumo di una sigaretta. Quello che mi piace di questo brano, è proprio questo: di quello che noi conosciamo come Blues, Gerolamo se ne frega. Quindi è una rottura. Ma con quei stessi 3 accordi, con la ricerca di portare una rabbia in una forma ballabile e cantilenante, ha fatto proprio del Blues. Cos’è il blues nella sua essenza se non questo? Fateci caso. Oggi chi dice “faccio Blues” imita la scena americana di tanti anni fa. Ma così il Blues muore, si riduce a un ritorno ai bei tempi per anziani. Si riduce ad una questione di forma, o di imitazione. Ma il Blues può fare ancora rottura. E questo blues alieno, ironico e dissacrante sulla scena musicale, è la cosa più blues che ci sia. Anche se suona freak, anche se è in italiano, e non suona anni ’40. La nostra Delorean è diventata mezzo ipertecnico e uberfantascientifico, forse si è scassata, e ci lascerà là nel futuro.








           

 




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