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Mood Indigo: trip's strip. La psichedelia tra cinema e musica

Di Lorenzo Traggiai
Data di pubblicazione 08/10/2013


Sicuramente vi sarà capitato di uscire da un cinema con gli occhi sbarrati a fissare il vuoto, la mano stampata in fronte, ripetendo più volte: “Cosa cazzo ho appena visto!!!” e sentirvi i più fighi dell’universo l’attimo successivo. A me per esempio è capitato anche qualche giorno fa. Sono stato invitato da amici al cinema. Che andiamo a vedere? – faccio io. Mood Indigo: la schiuma dei giorni – mi scrivono per sms. Mi metto a googlare velocemente il titolo e dai primi link capisco che “La schiuma dei giorni” è anche il titolo di un romanzo di Boris Vian. L’attimo dopo capisco che il film è stato tratto dal libro. Non leggo altro per non rovinarmi la sorpresa, mi incammino verso il cinema incuriosito e incoraggiato dalla presenza nel cast di Audrey Taoutou (vulgo Amélie).

Dopo lo spegnimento delle luci e la carrellata di spot e trailer di rito, arriva il momento tanto atteso. Occhi di bambino si affacciano alle mie orbite. Quello a cui ho assistito non è stato un film. E’ stato un trip da paura in piena regola. Di quelli che quando lo racconti dici venti trenta quaranta volte “non puoi capire”, senza manco accorgertene. Per questo motivo, quindi, e per non rovinarvi la sorpresa se volete andare a vederlo, non vi racconterò la trama, tanto meno farò spoiler di alcun genere; ma lasciatemi dire quanto (praticamente) ogni inquadratura sia figa, quanto gli occhi non possano fare a meno di assuefarsi alle numerose genialate messe in scena da Michel Gondry: scarpe che scappano come cani disobbedienti, cibo animato, stanze dalla forma sinusoidale, membra umane degne di Mr. Fantastic, concatenazione degli eventi degna di Alice nel paese delle meraviglie…tutti tasselli di un viaggio lungo due ore, in cui i tempi e gli spazi si deformano e riformano a piacimento. E’ più di un film fantastico, o surreale o onirico. Personalmente credo di aver assistito a un trip in carne e ossa lanciato in uno striptease micidiale attorno a un palo da lap dance a mostrare se stesso. Molti penseranno che tutto ciò provenga da una buona quantità di LSD, per me da una fantasia libera, ma libera per davvero, come quella infantile. Forse dopo aver sottovalutato il talento di Vian e Gondry. realizzo di non aver mai visto prima il concetto di trip assimilato e rigettato fuori in una metafora nuova tanto calzante.

Trip in italiano è viaggio, ma anche corsa o gita o andata o salto. Io direi che è tutte queste cose insieme. Ormai è una di quelle parole prese in prestito da un’altra lingua e che, se tradotte, perdono la loro forza semantica. E di per sé il significato è già difficilmente spiegabile. L’uomo da sempre viaggia, si sposta, perché ne ha bisogno. Ne ha bisogno perché non è fatto per stare costantemente nello stesso posto, deve assentarsi, almeno per un po’, se non trasferirsi del tutto. Ma non tutti viaggiano fisicamente, per i più svariati motivi. Si può intraprendere un viaggio, una fuga dalla realtà, o meglio dalla realtà a cui si è abituati, anche stando seduti. E’ importante che viaggi la mente, prima ancora del corpo. Penserete che sto per farvi un discorso limitato alle droghe, esaltandone le qualità terapeutiche al grido di “droga libera!!!”, invece no: anche un viaggio “fisico” ha successo quando la mente riesce a staccare, cioè riesce a non rimanere nel luogo di partenza e si immerge nel viaggio. Per questo l’uomo da sempre cerca metodi per viaggiare almeno con la testa: da un semplice giro in macchina fuori città a una bottiglia di vino agli stupefacenti fino ad arrivare alle vacanze e agli spostamenti definitivi. Altrimenti c’è l’arte che ti porta altrove senza che tu debba fare neanche un passo. Come un film, o come una canzone. Ogni opera d’arte può essere un trip: possa essere un libro (Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carrol o certe poesie di Allen Ginsberg), un’opera d’arte visiva o cinematografica (il film in questione o i dipinti di Dalì) o una composizione musicale. E qui di esempi da citare ce ne sarebbero parecchi. Quante volte avete ascoltato un brano o un’intero album e avete pensato “Che trip, ragazzi!!!”. Beh, se siete stati addirittura portati ad identificare l’opera che ascoltavate col trip stesso, non credo ci sia bisogno di dire altro. Ma sono pochissime le canzoni che ci portano a spasso. Bisogna saperle trovare, bisogna cercare. E’ un viaggio anche quello. Sentitevi questa:

Il bello di questa Nuvole Dark è lo stesso bello che io trovo in tutta la musica che all’epoca beat cambiò la percezione delle cose e di un’intera generazione. L’intento con cui i Doors scrivevano i loro pezzi, canzoni chilometriche come Light my fire The end, era sempre lo stesso: spedirti in trance. I lunghi assoli stranianti di Ray Manzarek alla tastiera e Robby Krieger alla chitarra come un ipnotico ritmo africano che non ti lascia più andare via. Jimi Hendrix e le cavalcate della sua chitarra “acida” a Woodstock e i suoni impazziti del dub inglese. Baudelaire, William Borroughs, Allen Ginsberg, Aldous Huxley, Andy Warhol, i Beatles, John Coltrane, Stanley Kubrick, Steve Jobs e tutte le menti liquide, lisergiche, che ci invitano a viaggiare. Le pazzesche composizioni di Frank Zappa e… We are the Night dei Chemical Brothers. I suoni e le forme che, da quegli anni esplosivi tendono al liquido, all’onirico, al lisergico, non sono facili da riconoscere oggi. Ed in quanto materia liquida, è arte capace di adattarsi all’epoca in cui si trova, quasi nascondendosi, e ci ritroviamo a riassaporare quegli stessi colori in questi anni ’10 del terzo millennio. Li ritroviamo in una canzone come Nuvole Dark, in un film come Mood Indigo. Rinasco. Ho bisogno di viaggiare, io. Perché da un viaggio, di qualunque tipo, la mente si porta sempre qualcosa. I viaggi letterari di Kerouack, Dante o Ulisse ce lo sbattono davanti agli occhi: in lungo e in largo per gli Stati Uniti, nell’aldilà o in mare per vent’anni non importa. Ciò che hanno portato a casa è qualcosa che nient’altro gli avrebbe mai potuto dare: un arricchimento interiore sedimentato per sempre sulle pareti dello spirito. Le opere ci cambiano perché ci cambia il percorso che facciamo dentro di esse. Quando sono uscito dal cinema quella sera, avevo con me un bagaglio nuovo, mi sentivo – ovviamente – strano e non riuscivo a capire cos’era.

In parte, era l’input per questo articolo.

Lorenzo Traggiai







           

 




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